UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

domenica 27 luglio 2025

GUERRA
di Massimo Nava

Massimo Nava
 
“Si vis pacem, para bellum”, sarà vero?
 
Lunedì 14 luglio scorso Massimo Nava, storico giornalista del ‘Corriere della Sera’, pubblicava sull’edizione on-line questo importante scritto. Gli ho chiesto di poterlo ospitare su ‘Odissea’ per i nostri lettori. Lo ringrazio sentitamente per la disponibilità e la delicata sensibilità. [a. g.]
 
 
Ma davvero se si vuole la pace bisogna prepararsi alla guerra? 
Ma davvero è necessario il riarmo per prevenire aggressioni e conflitti? Ma davvero la massima latina «si vis pacem, para bellum» avrebbe un attualissimo significato politico che incoraggia la deterrenza? Di certo, la massima latina è molto in voga e da più di un secolo molto citata dai politici e da qualche militare. L’ultima, in ordine di tempo, è stata la presidente del consiglio Giorgia Meloni, quando in Parlamento ha così motivato la necessità di aumentare il budget della difesa secondo le indicazioni approvate all’ultimo vertice Nato.


Ma le cose stanno davvero così? E l’interpretazione è davvero corretta? Cominciamo con verificare che le origini sono di incerta attribuzione. Secondo l’Enciclopedia Treccani, trova la sua prima formulazione nel prologo del terzo libro della «Epitoma rei militaris» di Vegezio, compendio composto tra la fine del IV e l’inizio del V secolo. Nello specifico, Vegezio scriveva «Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum», che tradotta letteralmente significa: «Dunque, chi aspira alla pace, prepari la guerra». Concetto espresso anche da Cornelio Nepote, storico del I secolo avanti Cristo e da Cicerone: «Si pace frui volumus, bellum gerendum est». In pratica «Se vogliamo godere della pace, bisogna fare la guerra». L’interpretazione sembrerebbe tuttavia più in linea che la filosofia e la politica dell’impero romano che non con un concetto di deterrenza: fare la guerra, conquistare territori, sottomettere popoli sono azioni funzionali alla conquista e al mantenimento della pace. Rendendo appunto schiavi e sottomessi gli altri.


Bonaparte
 
Filosofia messa in pratica anche da Napoleone che di fatto rovesciò la sentenza: fare la pace (a quel tempo con la Russia) per poi fare la guerra (alla Russia). Come scrisse il suo ex compagno all’Accademia militare, Louis Antoine Fauvelet de Bourrienne, nelle sue Memorie: «Si Bonaparte eût parlé latin, il en aurait, lui, renversé le sens, et aurait dit: Si vis bellum para pacem».  «Se Bonaparte avesse parlato latino, avrebbe detto: se vuoi la guerra prepara la pace». 
La massima latina ispirò (tra lo zar Nicola II e il presidente francese Félix Faure) l’alleanza franco russa alla fine dell’Ottocento, in funzione antitedesca. Ma questa formidabile azione di «deterrenza» non evitò lo scoppio della prima guerra mondiale. 
La massima andrebbe anche relazionata con Tacito e alla famosa sentenza che oggi richiama l’Ucraina e Gaza: «Dove hanno fatto un deserto l’hanno chiamato pace». In un certo senso anche l’attacco all’Iran entrerebbe in questa «casistica», un attacco preventivo per evitare guai peggiori. Nella stessa logica, dovremmo però chiederci perché l’Iran non dovrebbe a questo punto dotarsi davvero della bomba, avendo come nemico appunto una potenza nucleare come Israele. Gli storici e i politici attuali dovrebbero anche spiegare come e perché gli Stati europei dopo essersi combattuti per secoli in devastanti guerre di conquista e aggressione si siano garantiti settant’anni di pace non con la deterrenza armata ma aprendo i confini agli uomini e alle merci.
 

Gandhi

Forse qualche riflessione andrebbe fatta a proposito di quei leader e pensatori, in testa Gandhi, che sostennero esattamente il contrario: la guerra si evita preparando e favorendo con ogni mezzo la pace. Questo è del resto lo spirito della Carta dell’Onu e persino del Trattato della Nato, spirito in parte abbandonato, dimenticato e distorto. È un fatto che secondo l’Istituto svedese Sipri le spese militari mondiali hanno raggiunto nel 2024 il loro massimo storico (oltre 2.700 miliardi), mentre oggi nel mondo sono attivi 56 conflitti armati che coinvolgono più di 92 Paesi, il numero più alto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una conferma che «prepararsi alle guerra», non solo distoglie risorse economiche dai bilanci degli Stati, ma non porta alla pace. Papa Leone XIV, riprendendo i continui appelli alla pace del suo predecessore ha detto: «Non dobbiamo abituarci alla guerra, anzi, bisogna respingere come una tentazione il fascino degli armamenti potenti e sofisticati».


Fabio Mini

Il generale Fabio Mini, ex generale di corpo d’armata con una lunga esperienza in missioni internazionali, ha addirittura sostenuto che «secondo alcuni storici quella frase non è nemmeno mai stata pronunciata nell’antichità. Oggi la vera deterrenza passa per la qualità dei rapporti tra le nazioni. Senza riconoscimento reciproco non può esserci diplomazia, e senza diplomazia non può esserci pace». Di fatto, a partire dagli anni Novanta «abbiamo assistito a un’accelerazione bellica travestita da “guerre umanitarie”».
 
Nei suoi primi mesi di mandato, il presidente americano Donald Trump ha messo in campo un attacco ad ampio raggio contro un principio consolidato del diritto internazionale: quello che vieta agli Stati di minacciare o usare la forza militare contro altri Stati. Principio peraltro infranto drammaticamente dal presidente russo Putin.


 
La Carta delle Nazioni Unite del 1945 vieta di «ricorrere alla minaccia o all’uso della forza contro l’integrità territoriale o l'indipendenza politica di un altro Stato». Ma oggi si fa strada una pratica opposta: ripristinare la guerra o la minaccia della guerra come principale mezzo con cui gli Stati risolvono le loro controversie e cercano di ottenere vantaggi economici. Come hanno scritto gli analisti di Foreign Affairs, «se non controllata, l’erosione del divieto dell’uso della forza riporterà la geopolitica a una cruda contesa di potere militare. Le conseguenze saranno gravi: una corsa globale agli armamenti, nuove guerre di conquista, contrazione del commercio e il crollo della cooperazione necessaria per affrontare le minacce globali comuni».

 
Il rischio è quindi il ritorno a un’epoca in cui gli Stati potenti ricorrevano liberamente alla guerra per far valere le loro rivendicazioni, mentre gli Stati più deboli erano costretti a sottomettersi o rischiare l'annientamento, dando luogo a un susseguirsi quasi costante di conflitti. «Le varie salve retoriche e i cambiamenti di politica di Trump possono sembrare caotici. Ma fanno tutti parte - secondo Foreign Affairs - di un tentativo più ampio di smantellare l’ordine giuridico del dopoguerra. Quando è stata fondata l’Onu, cinque paesi potenti - Cina, Francia, Unione Sovietica, Regno Unito e Stati Uniti - si sono attribuiti una posizione privilegiata come membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con il potere di veto su qualsiasi azione di enforcement. Queste lacune hanno delegittimato l’ordine giuridico che proibisce l'uso della forza, in particolare agli occhi degli Stati del Sud del mondo. Riconoscere le debolezze dell’ordine giuridico postbellico e il frequente fallimento dei suoi difensori nel rispettare i propri ideali è un primo passo fondamentale verso la creazione di un ordine giuridico più solido. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in cui tutti i 193 Stati membri hanno pari diritto di voto, dovrebbe svolgere un ruolo di primo piano. Attualmente questo organo non ha i poteri esecutivi del Consiglio di Sicurezza, ma in quanto organo responsabile del mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, può esercitare un maggiore potere per far rispettare il divieto di ricorso alla forza sancito dalla Carta. Proprio come i politici degli anni ’40 cercarono di stabilire una pace duratura dal caos della guerra, i leader di oggi devono progettare istituzioni, alleanze e strategie per garantire la pace, piuttosto che stare a guardare mentre Trump torna indietro nel tempo».


 
 
Si tratta insomma di ritornare ai fondamentali, alla diplomazia, alla politica, anziché inseguire la folle illusione che aumentare la propria forza serva a difendersi meglio dalla forza altrui. Salvo decidere di distruggersi reciprocamente.


 

https://www.corriere.it/il-punto/la-rassegna/25_luglio_14/la-psicologia-dei-miliardari-preparare-la-pace-militarismo-di-ritorno-sinner-e-le-tenniste.shtml





 

POETI
di Neal Hall


Neal Hall
 
 
In questo momento storico di silenzio e complicità sul genocidio in Palestina, sento più che mai l’indifferenza occidentale e araba, frutto di interessi finanziari, contro la voce del cuore che si eleva dalla poesia di chi è ancora legato alla terra, alle tradizioni e alle proprie radici.
Rosanna.
 
 
Agghiacciante silenzio 
 
Non è la notte
ma l’assenza di luce
Non è l’ardore opprimente del deserto
ma la pioggia che manca di cadere
Non è l’umanità che perde umanità
togliendo, negando umanità al proprio simile, ma
l’umanità che manca di trovare la propria umanità
lottando per ridare, per cedere di nuovo
l’umanità vista, presa, sottratta al proprio simile
Non è il clamore stridente né le caustiche voci
dei malvagi, ma il silenzio agghiacciante
di quelli che dichiarano d’essere brava gente
  
Non è la notte, ma l’assenza di luce
che ci tiene all’oscuro
e in quell’oscurità non vanno ricordate 
le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici.
  
[trad. Francesca Diano]



*Neal Hall è un chirurgo americano, oftalmologo e poeta. Nato a Warren, nell’Ohio, si è laureato alla Cornell University e successivamente si è specializzato ad Harvard. Quasi del tutto sconosciuto da noi, è invece riconosciuto a livello mondiale come uno d poeti più autorevoli e ha ottenuto moltissimi premi e riconoscimenti negli USA, in molti paesi africani, in Canada, in Nepal, in India, Jamaica e Indonesia. Vive negli Stati Uniti, dove esercita la sua professione ed è autore di quattro raccolte poetiche, Nigger for Life, Winter’s A’Coming Still, Where Do I Sit e Appalling Silence, da cui è tratta questa poesia e che è stato tradotto in telugu e urdu.
 

 

 

 

 

 

ANTIFASCISMO
di Anna Rutigliano


 
In Memoria di Graziano Fiore e di suo padre Tommaso.
 
È del 19 Giugno 1943 la lettera che l’umanista e militante antifascista pugliese Tommaso Fiore, allora detenuto politico, dedica a suo figlio Graziano, dal carcere di Bari, di cui vorrei sottolineare il tono esortativo di papà Tommaso: “Se hai voglia di D’annunzio, leggi tu (non tua sorella) le Novelle della Pescara, L’Innocente, La Figlia di Iorio, Le Laudi. Devi nutrirti di Parini, di Foscolo, di Carducci, spiriti eroici e altamente educatori, degni di Omero”. Una lettera toccante le cui parole consolidano lo spirito e le instancabili energie intellettuali con cui il prof. Fiore si è sempre battuto per affrontare le questioni agrarie e di repressione fascista, le politiche del Mezzogiorno e gli ideali di libertà, nonostante rinchiuso in “stretta prigion che tra sé racchiude nobil pensier a giusta vita intento”, nei versi di Cruda prigione per la penna dell’animo delicato dell’allora diciottenne Graziano. Qualche sera fa, in occasione del ciclo di incontri dal titolo “Eco-visioni”, voluti dalla sezione di Corato, mio paese di residenza, dell’associazione Legambiente, mi è capitata fra le mani, come soffio di vita dal cielo, la raccolta inedita di poesie composte da Graziano Fiore, curata dallo scrittore e drammaturgo Paolo Comentale, promotore del teatro Casa di Pulcinella nel capoluogo pugliese, di cui è alla direzione artistica. Versi apparentemente acerbi eppur gentili quelli di Graziano Fiore, preziosamente custoditi nell’archivio storico dell’Istituto Pugliese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea e riportati alla memoria storica collettiva dopo più di ottant’anni per volere di sua sorella maggiore Franca. Il periodo ’42-’43 è un anno nero per l’Italia, succube dello spietato regime repressivo mussoliniano a cui lo stesso Graziano non viene risparmiato: il 7 Aprile del ’42, nel giorno del Lunedì dell’Angelo, l’OVRA, la polizia del regime fascista, dimentica del significato cristiano pasquale della pace, cattura Graziano e lo detiene in carcere per venti giorni, ma questo è solo l’epilogo di una tragedia che si consumerà a fine luglio. La detenzione nel carcere minorile di Bari è una esperienza che segna e plasma profondamente l’animo del ragazzo, i cui versi, in seguito, avranno l’eco amara del dolore e della speranza continuamente minata, interrogando la natura “matrigna”, di memoria leopardiana, origine del suo infausto destino: leggiamo, così, nell’incipit della poesia “Natura Spietata”, sotto forma di quesito: “perché ridi natura al mio profondo duolo?” , domanda a cui il giovane poeta altamurano formula una risposta del tutto negativa rafforzata dall’avverbio di negazione “no”, nei versi finali : “No, tu vuoi far soffrire, soffrire d’immani dolori, recidere il fior della mia vita e poi lento lasciarlo appassire”. Secondo un climax ascendente, l’animo di Fiore si fa più cupo e buio nella lirica composta il 12 Luglio del ’43 dal titolo “Bufera, i cui primi versi si tingono letteralmente di nero, colore delle tenebre, simbolo di lutto: “Il cielo è rannuvolato. Nere e dense nubi d’un color tenebroso in quest’animo nero si rispecchiano e annunziano ire frementi di antiche forze arcane. Nell’impianto centrale del testo si rafforza l’idea del poeta a proposito della natura quale forza distruttiva: “Poi la natura infierita volgerà la sua forza, l’immane forza della distruzione, sino a raggiungere l’apice del nichilismo leopardiano nella chiusa finale: “In questa lunga lotta, qui è la vita, qui il nulla”. 



Una domanda però è lecita: siamo certi che il cromatismo nero che pervade le poesie di Fiore, si pensi ad esempio alle oscure vie che solo il riverbero della luna è in grado di illuminare in “Luna” o i battiti neri delle rondini sul calar del sole, preannuncio della sera con le sue infinite tristezze in “Tramonto”, non sia invece il frutto, maturo, incarnatosi nel pensiero di un diciottenne, testimone di una politica socio-economica repressiva, violenta, ingiusta e cieca dei valori di dignità e libertà degli individui da parte del regime fascista improntato alla guerra e all’odio? Graziano Fiore è un giovane studioso, ha talento, ha una delicata sensibilità per le questioni sociali, ereditata dall’intelletto eroico e dalla militanza antifascista di papà Tommaso in detenzione. Certamente barlumi di speranza affiorano da alcune sue liriche così come leggiamo in “Risveglio” sempre di impronta leopardiana: “Solitudine cerch’io fra questi scogli che natura abbellisce coi primi raggi, quant’io solo al suo risveglio m’annullo in questo immenso” o in “Purezza” in cui la Natura ha anche un lato dolce e benigno con il suo mare increspato “in cui le onde raggiungono pace fra le strette insenature. In questa altalena di sentimenti e colori, fra il nero ed il candore, fra la tristezza e la speranza, gioca un ruolo cruciale, nella formazione di Fiore, il clima bellicoso instaurato dal “ginger” del generale Roatta, impegnato nelle occupazioni balcaniche. Con la sua “Circolare 3C” la guerriglia partigiana da parte dei ribelli croati e slavi è percepita come seria minaccia tanto che Roatta sancisce al Punto VI della direttiva: “Alle offese dell’avversario si deve reagire prontamente e nella forma più decisa e massiccia possibile; il trattamento ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, ma testa per dente!”; mentre al punto VII, sempre della stessa circolare si legge: “Le operazioni contro i ribelli sono vere e proprie operazioni belliche”. Pochi giorni dopo la deposizione di Mussolini del 25 luglio, il 28 luglio del ’43, molti partigiani, antifascisti, studenti e docenti manifestavano pacificamente chiedendo la scarcerazione dei detenuti politici, tra cui l’intellettuale militante Tommaso Fiore. Graziano Fiore, suo figlio, il poeta gentile, perdeva la vita, assieme ad altri diciannove manifestanti per mano e spirito di odio della Polizia del regime, a cui si aggiungono, degni di menzione, circa trentotto feriti. La storia, in questo modo, aggiungeva una ulteriore pagina di vergogna e atrocità con l’eccidio di Bari in via dell’Arca. Affidare alla memoria storica collettiva il ricordo di un animo sì delicato e fragile ma speranzoso di una riscossa, come dimostra il suo manoscritto politico del 22 luglio dello stesso anno, non solo è doveroso per informare e formare le coscienze delle presenti e future generazioni, ma è un gesto di rispetto per coloro che “come la bianca rondine che vola verso l’eternità, la speranza del giusto farà il suo nido nelle fauci inerti del destino”.

[“Nel primo Centenario della nascita di Vittore Hugo”, Ode, G. D’Annunzio]

LA POESIA
Laura Margherita Volante


 
Radici
 
Mi sento come una quercia 
abbattuta 
le cui linfe si disperdono fra 
i reperti antichi dei miei avi.
Il tronco sulle cui radici 
fu il puntello per i cicli
dell’essere.
Forti nodose e profonde senza 
più nome
in eterno canteranno 
salmi di pace sui passi
di chi 
raccoglierà le memorie 
del tempo.
La quercia abbattuta 
non ci sarà ad accogliere 
il cinguettio della
cinciallegra e neppure il merlo
vedetta indifferente.

 

CINEMA
di Marco Sbrana



Colpa e redenzione ne Il collezionista di carte di Paul Schrader
 
L’asse ontologico-formale dei film di Paul Schrader (e, ovviamente, di quelli che ha sceneggiato per il maestro Scorsese, tra cui Taxi Driver), è quello della colpa. Non è mai, la colpa, come vogliono credere i protagonisti di Schrader, un’esclusiva; è sempre tessuto, struttura, e quindi, nel discorso dell’autore, America. De Niro veniva elevato dall’America, al termine di Taxi Driver, a eroe, dopo la celebre sparatoria finale. Non si curava, l’America, del trauma causatogli con la guerra del Vietnam, né del dolore che Travis aveva a sua volta arrecato. Serviva una figurina da almanacco, e l’America l’aveva trovata in un uomo che - ricordiamolo - per il primo appuntamento con la ragazza che ama propone il cinema porno.
Ne Il collezionista di carte, è un’America che omette, che protegge chi comanda e getta all’inferno chi esegue. Ma, come dice Oscar Isaac, questo non assolve. Non c’è niente, dice, che possa giustificarlo per gli orrori che, come carceriere militare - in sostanza, criminale - commetteva ai danni dei detenuti. Eppure, il personaggio di Oscar Isaac era stato addestrato al fine di estorcere con la forza informazioni che, a dire del capo (un sempre in forma Willem Dafoe, già protagonista per Schrader ne Lo spacciatore), i detenuti “per cultura” non volevano fornire, ma che avevano, bastava insistere. Erano, allora, nelle celle “guantanamizzate” nel 2002, botte, tortura dell’acqua, privazione sensoriale, riduzione alla fame, umiliazione sessuale. E, Oscar Isaac lo riconosce, lui era portato per quell’orrore. Era il perfetto americano pronto a macchiarsi e poi a farsi colpevole, portatore eterno di una colpa, ripetendo, non esclusivamente sua, ma per lui tale fino al momento in cui conosce il personaggio di T. Sheridan.
È al giovane che Isaac pronuncia le migliori parole del film. L’ingiustificabilità. Il corpo che ricorda, che incamera. È tutto, Il collezionista di carte, un film della carne, anche quando esclusa volontariamente dal discorso. Sheridan è figlio di un altro militare dello stesso grado di Isaac. Incarcerato per nascondere chi comandava le prigioni, poi uscito dalla morte come violento, alcolista e, infine, suicida. La madre di Sheridan è fuggita; lui non la vuole più vedere. E, sempre Sheridan, vuole uccidere John Gordon, ossia Willem Dafoe.
Con loro, Tiffany Haddish. Finanziatrice, lei, di Isaac, amica, amante.
Tutto il film si svolge nel contesto del gioco d’azzardo, del blackjack. Una delle prime battute di Isaac è questa, parafrasando: Il blackjack è causalità. Ecco il determinismo morale, ecco l’analogia tra poker e vita, tra debito e debito morale, tra rischio e superamento della soglia.



Ma, più ancora, il concetto di “deriva della forza”. Tutti possono andare in tilt - è Isaac in uno degli splendidi monologhi di Schrader. Quando il giocatore si esalta per le vincite e supera, per rischio, le sue reali possibilità. Quando, con maggiore sforzo - maggiore forza - si ottengono meno risultati. La prigione, in questo, insegna, dice Isaac. E lui la conosce la prigione: è stato dentro dieci anni per i crimini commessi e, prima, come carceriere, comunque dentro, nell’impossibilità di evadere dalle feci, dal tanfo, dal rumore.
Sicché, ne Il collezionista di carte, via via che procediamo nello svolgersi del testo scopriamo sempre più di Oscar Isaac, di Willem Dafoe e della colpa di un’America malata, omertosa, dalla parte dei grandi.
Sheridan, decide Oscar Isaac, non può uccidere Willem Dafoe. Per non farlo e andare a trovare sua madre, Isaac gli offre 150.000 dollari (esentasse). Ed è qui il fallimento della redenzione.


Paul Schrader

Isaac ci viene presentato come metodico e depresso, glaciale e già per forza morto, schiacciato da un debito che, forse, non può saldare. La redenzione, sembra dirci il gesto della consegna del denaro, non è sua, non può essere sua, ma può essere data. Ma Sheridan, dopo aver accettato, rifiuta, e va a uccidere Gordo. Che è più svelto di lui, con le armi.
E arriviamo a un finale assolutamente degno di Taxi Driver. Sheridan è morto, e Isaac deve sistemare le cose. Nei flashback del carcere (quello vissuto da detenuto, s’intende), lo vedevamo, oltre che contare le carte da poker, leggere Marco Aurelio. Regolare i conti con sé è regolarli col mondo che abbiamo contribuito a disorganizzare con la nostra colpa.
Un colpo a testa: inizia Isaac; poi Dafoe; poi Isaac. Il genio registico vieta il tutto alla vista e una panoramica laterale ci svela il farsi del sole mentre, dalla stanza della casa di Dafoe, esce un Isaac quasi morto che, al telefono, denuncia un omicidio.



E solo adesso, solo nella fine del debito, solo nei conti regolati - etica comprensibile e deprecabile a un tempo - può concedersi di amare. Haddish va a trovarlo e, dal vetro separatore, si toccano le dita, dopo che a lungo lei l’ha corteggiato trovando la pietra tombale di un uomo che rinasce solo quando, adesso, si interrompe il ciclo del debito.
Il nuovo carcere - e quindi Isaac è un’altra volta detenuto - è sempre stato, forse, l’unico spazio. Che vieta, pregiudica ma, per alcuni - Isaac è tra questi - concede la vita. Perché l’obiettivo non è mai stato vincere. Chiede Haddish a Isaac perché giochi se non per soldi. Risponde lui: Per passare il tempo. E in carcere ne avrà, di tempo.

sabato 26 luglio 2025

INCHIESTE
di Angelo Gaccione


 
Ho letto, nella Nota Diplomatica di ieri di James Hansen a proposito della recente inchiesta del Censis sugli italiani contrari alla guerra, che solo il 16% di età compresa fra i 18 e i 45 anni andrebbe a combattere. Queste inchieste sono stucchevoli e insipienti come coloro che le promuovono. Che cosa si aspettavano che rispondessero gli intervistati? Che sarebbero corsi entusiasti a farsi ridurre in poltiglia? Mi piacerebbe sapere le risposte di chi ha formulato le domande e di chi ha commissionato l’inchiesta. Potrebbero, per esempio, rispondere a queste di domande:
1) Come vi comportereste voi?
2) E dei vostri figli sareste felici che corressero verso il massacro?
3) Siete consapevoli che con 15 mila ordigni nucleari a disposizione non rimarrebbe in piedi nulla di voi, dei vostri cari, delle vostre case, dei vostri beni, dei vostri conti in banca?
4) Lo sapete che con 15 mila ordigni nucleari a disposizione il concetto di difesa è un’idea idiota?
5) Vi chiedete qualche volta chi sono i responsabili della guerra?
6) Voi vi ritenete responsabili? Se non vi ritenete responsabili siete d’accordo che ad andarci devono essere coloro che le provocano?
7) Potete indicare nell’ordine coloro che ritenete responsabili della guerra?
a: Capi di Stato e di Governo
b: politici, parlamentari, esponenti delle istituzioni interne ed internazionali
c: uomini e donne della finanza, dell’economia, dell’imprenditoria
d: scienziati e militari che lavorano per la guerra
e: giornalisti e intellettuali (senza intelletto) asserviti ai governi
f: leader e partiti politici guerrafondai
g: tutti costoro
 
8) Secondo voi sono i lavoratori, i disoccupati, la gente comune a provocare la guerra, o uomini e donne di potere con l’appoggio della stampa?
9) Sapreste dire chi si arricchisce con la guerra?
10) Come definireste i responsabili della guerra?
11) Chi paga secondo voi il costo economico della guerra?
12) Con le guerre in corso stanno morendo più militari o civili innocenti?  
13) Lo sapete che non è stato mandato a combattere nessuno figlio di capo di stato e di governo?
14) Lo sapete che sul fronte di guerra non c’è nessuno dei responsabili che l’ha direttamente provocata?

15) Cosa pensate dei 2.700 miliardi di spesa militare impiegati nel solo 2024 dagli Stati e dai Governi?
16) Andreste a farvi ammazzare per Stati e Governi che spendono per il massacro 2.700 miliardi in un anno, mentre le nostre vite e la nostra salute sono sempre più precarie?
17) Considerate il riarmo una politica di pace o la premessa della guerra nucleare che cancellerà per sempre l’intero genere umano?
 
Consolazione finale.
I 15 mila ordigni nucleari a disposizione, se saranno impiegati, non risparmieranno le vite dei potenti responsabili della guerra. Anche di loro non resterà traccia. Consolatevi.
 

 

 

 

 

 

 

MANIFESTO PER IL DISARMO 
Per conquistare e difendere il diritto alla pace. 

  

Disarmo come obiettivo politico
Avviare il processo verso il disarmo vuol dire, in prima istanza, promuovere e rendere operativi accordi riguardo la non proliferazione delle armi nucleari, chimiche, batteriologiche, la proibizione delle mine antiuomo e delle munizioni a grappolo, istituendo zone denuclearizzate per arrivare a decretare la distruzione degli arsenali e la rinuncia alla produzione di nuovi armamenti.
Per avvicinarsi a questo obiettivo, è necessario costruire un dissenso attivo in grado di aprire una vertenza con lo Stato che lo impegni ad un percorso di demilitarizzazione verso il disarmo unilaterale.
È necessario ostacolare la creazione del debito pubblico che finanzia la produzione militare e le infrastrutture destinate alla guerra rilanciando le battaglie per la promozione del benessere sociale.
 


Neutralità come scelta
L’assunzione di uno status di neutralità, cioè la scelta di uno Stato di non partecipare ad alcun conflitto armato e non aderire ad alcuna alleanza militare, è, ad oggi, regolato dal diritto internazionale, con norme specifiche che definiscono i diritti e gli obblighi degli Stati neutrali.  Svizzera, Austria, Irlanda e Costa Rica sono tuttora Paesi neutrali.
L’Italia ospita sul suo territorio più di 120 basi USA e NATO, cosa che pone, di fatto, una limitazione all’esercizio della sovranità nazionale. Dunque, una campagna che metta al centro la scelta della neutralità come aspirazione di larga parte della popolazione rafforza l’urgenza di costruire un movimento di base contro l’adesione dell’Italia alla NATO e per l’espulsione delle sue installazioni militari dal nostro Paese.
Far valere e rispettare il ripudio della guerra sancito dalla nostra Costituzione implica, infatti, impedire la concessione di parti del nostro territorio per operazioni belliche e per il commercio e il transito di materiali destinati ad uso militare.



CHI INVESTE NEL “RIARMO” PREPARA LA GUERRA
 
In Italia, come nella gran parte dei paesi europei, i governi applicano politiche di riarmo e preparano la popolazione ad accettare un investimento statale crescente per la “Difesa”, cioè per armi, mezzi, munizioni, costi operativi, infrastrutture dedicate, missioni internazionali e per il sostegno militare all’Ucraina.


1)- Nel 2025 noi italiani spenderemo per la Difesa 33.023.750.431 euro - di cui circa 13 miliardi per acquisizione di nuove armi - pari all’1,45% del PIL.


2)- L’accordo sottoscritto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni al vertice NATO del 24-25 giugno 2025 all’Aia comporta l’impegno a raggiungere entro il 2035 un onere finanziario corrispondente al 5% del PIL. In valore assoluto significa che l’Italia, per portare la spesa militare annua dagli attuali 35 agli oltre 100 miliardi, cioè per triplicarla, dovrà reperire nuove risorse finanziarie nell’ordine dei 6-7 miliardi, ogni anno per dieci anni.
 
3)- Il 20 marzo a Bruxelles è stato approvato il piano ReArm Europe con il quale la Commissione europea (organo esecutivo non eletto) stabilisce di aumentare la spesa per la difesa dei Paesi dell'UE di almeno 800 miliardi di euro.
 


Il piano include la possibilità di estendere la deterrenza nucleare francese ad altre nazioni europee. Non si tratta solamente di un vertiginoso aumento della spesa pubblica che ingoia fondi altrimenti destinati alle politiche sociali e di welfare, si tratta di ristrutturare il sistema produttivo dirottando investimenti pubblici e privati verso l’apparato militare-industriale verso il quale orientare risorse per la ricerca e per la realizzazione di infrastrutture penalizzando fortemente le basi materiali della vita civile e dell’uso sociale del territorio.
Si tratta di concentrare ai vertici i poteri decisionali riducendo gli spazi di esercizio della democrazia e di impedire la libertà di espressione del dissenso con l’imposizione dell’ordine pubblico e delle leggi securitarie.
Si tratta di opporre alla sovranità popolare quella governativa, di delegare ad essa il potere di prendere decisioni ultime e vincolanti per tutti i cittadini, compresa la decisione di fare la guerra. 
Gli Stati si armano per far prevalere gli interessi economici e finanziari egemoni in una o in un gruppo di nazioni - il cosiddetto “interesse nazionale” - e del sistema politico che li rappresenta, interessi che sono in conflitto con quelli di altre entità nazionali o sovranazionali.
Il grado di sviluppo della forza militare e la relativa capacità di proiezione di potenza al di fuori dei confini viene definita “deterrenza”: l’idea è che un Paese o una nazione che si dota di un forte apparato militare può scoraggiare altri attori statuali dal condurre azioni belliche, ma deterrenza per l’uno significa minaccia per l’altro.
È il caso, nella attuale fase storica, dello scontro in atto tra Stati Uniti e Russia combattuto in Ucraina così come di quello tra Israele ed Iran giunto alla guerra diretta anche per l’evidente impossibilità dell’uno e dell’altro di difendere i propri “interessi nazionali”, cioè di estendere il proprio dominio materiale e culturale sulle ricchezze e sulle popolazioni del Medioriente a discapito del contendente e a danno della vita e del futuro delle classi subalterne.


No alla deterrenza e alle guerre preventive
La “deterrenza” è una strategia di guerra preventiva che consiste nel dotarsi di una potenza militare maggiore di quella di un eventuale avversario mantenendo operante uno stato di guerra latente. È, dunque, l’opposto della ricerca della pace. È, invece, uno strumento per imporre a Paesi più deboli di subire la “protezione” delle potenze maggiori al prezzo della propria subordinazione, al prezzo di dover acconsentire all’esproprio delle risorse, alla rapina delle ricchezze naturali e alla devastazione ambientale e sociale.
È strumento di trasformazione strutturale dell’economia dalla produzione di merce per il consumo di massa alla produzione di tecnologia bellica ad alto profitto e ad esasperato tasso di competitività. Una trasformazione che arruola nell’economia di guerra i cittadini, i lavoratori, i giovani delle nostre e delle future generazioni (tutti quelli che, una volta, con buona ragione chiamavamo proletari) vincolandoli al pagamento del debito di guerra accumulato per mantenere l’apparato militare ed esponendoli, in un futuro non necessariamente lontano, ad assaggiare sul campo la potenza di fuoco da loro stessi prodotta.


 


LA PACE È UN DIRITTO UNIVERSALE ED È LA PREMESSA AL PROGRESSO DELL’UMANITÀ
 
La pace è un diritto da conquistare e difendere
La pratica dell’internazionalismo, dell’antimilitarismo, del boicottaggio del trasferimento di armi, del sostegno alla libertà di migrazione e dell’accoglienza dei disertori e dei renitenti sono le prime armi che abbiamo a disposizione. Ma si impone una battaglia di lungo periodo per togliere di mano gli strumenti di guerra agli apparati di potere economico-finanziario e politico che sono espressione delle classi dirigenti per le quali la guerra è uno dei mezzi per realizzare profitti. Un percorso politico che miri a paralizzare l’economia di guerra, è parte dalla diserzione civile: disattendere, in associazione o anche individualmente, le normative securitarie, boicottare la movimentazione di mezzi militari sul territorio e la concessione di aree per esercitazioni e installazioni militari, sospendere la pratica della “pace sociale” che ha limitato gli scioperi per il salario e il welfare, fare barriera contro l’asservimento della ricerca nelle università ai progetti di riarmo, riprenderci il denaro investito nei fondi comuni delle società di gestione patrimoniale che speculano sull’industria militare a livello internazionale (come Black Rock e Vanguard), pretendere la desecretazione dei trattati, delegittimare pubblicamente la Commissione Europea, fare obiezione all’arruolamento. Possono essere molti i primi passi necessari per opporsi concretamente all’espansione della guerra e rendere il disarmo una prospettiva realizzabile.

Lega Obiettori di Coscienza

www.peacelink.it/pace/a/50066.html


 

DOMANDE
di Luigi Mazzella



Il bicorno di Napoleone e le conversazioni nei manicomi.
 
Quando, com’è nel caso dei cinque fideismi e fanatismi Occidentali, le convinzioni  sono basate non su un  meditato e sereno ragionamento ma su insegnamenti apodittici, tumultuosi, ricevuti aliunde e ritenuti, per una sorta di blocco mentale (e/o psicologico) incontrovertibilmente “veritieri e inconfutabili”; quando frasi propagandistiche, anatemi minacciosi  e promesse illusorie (mai realizzate, storicamente, nei fatti) tengono luogo  di discussioni approfondite; quando, come in un manicomio è ben difficile che una discussione tra folli conduca a un approdo che possa considerarsi positivo in direzione del cambiamento di opinione  e dell’assunzione di un diverso punto iniziale di partenza; quando i seguaci acritici di ogni irrealizzabile utopia lasciano campo libero alle emozioni religiose e alla passionalità politica, è difficile, se non impossibile, immaginare:



1) che un ebreo, un cristiano o un islamico ammetta che il suo unico Dio sia lo stesso e abbia gli stessi meriti e pregi del Dio unico degli altri due credenti monoteisti;
2) che un socialcomunista attribuisca i mali di cui soffre l’umanità ad altro che non sia il capitalismo feroce del neo o del vetero liberismo, conservatore e spietato negatore dei poteri del popolo e dei diritti della società civile;
3) che un nazifascista non creda nella missione di un popolo guida (fuhrer) destinato a garantire la salvezza del genere umano.
Se nessuno degli invasati delle cinque credenze  esistenti nella parte ovest del Pianeta si renderà mai conto che quanto sta avvenendo non è il risultato di una distorsione di principi altrimenti nobili ma la conseguenza ineluttabile di promesse ingannatrici di mete, ab initio, razionalmente irraggiungibili (e valide, invece, solo per ottenere consensi da smarriti e creduli quidam de populo) non v’è speranza alcuna di evitare l’avverarsi della terribile profezia di Oswald Spengler: l’Occidente avrà un futuro prevedibile e scontato.



E difatti, una collettività invasata, acritica, credulona non può accorgersi: 
a) che essa ripete pedissequamente giaculatorie inventate da chi su di esse ha costruito il proprio potere e la propria ricchezza (i Sacerdoti, gli Uomini delle “Nomenclature” fasciste e comuniste);
b) che per effetto della mancata verifica delle loro falsità, essa, accecata dall’odio reciproco ingenerato dalla loro irriducibile incompatibilità, ha contribuito oggettivamente a produrre ecatombi di morti, di distruzioni catastrofiche di cose e di città, di cosiddette civiltà;
c) che, ostinandosi a tenere gli occhi bendati, giorno dopo giorno, essa darà il suo colpo di piccone per favorire il crollo dell’edificio in cui dimora.
Domanda: che fare per evitare la catastrofe e rimettere l’Occidente sulla strada della razionalità?
Risposta: occorrerebbe percorrere a ritroso la strada che ha condotto l’Occidente da un sano uso della logica orientato alla ricerca di modalità ottimali di vita, personali e collettive, e fondato su conoscenze empiriche e sperimentazioni, all’attuale stadio di scontro perenne e rancoroso di fantasie immaginifiche dirette a rappresentare o un’idilliaca vita terrena o un’eterna beatitudine ultra esistenziale.
In entrambi i casi, sarebbe la presenza della morte, propria o degli avversari, ad assumere un ruolo determinante
Conclusione conseguente: per scongiurare il tramonto dell’Occidente non v’è che scaraventare giù dalla finestra la “morte” che vi è penetrata attraverso le porte dei suoi cinque irrazionalismi (la “bella morte” con il coltello tra i denti: dei fascisti; quella di intere generazioni per l’uguaglianza dei discendenti futuri: dei socialcomunisti; quella che spalanca le porte dell’aldilà: dei fedeli dei tre monoteismi mediorientali) e sperare nel trionfo della vita e della ragione!
Domanda ulteriore: “Missione impossibile” anche questa?
Ai miei lettori la risposta! Possibilmente motivata!

 

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